Istituto Svedese di Studi Classici – Roma, 3.3.2016#

La riforma del sistema di tutela in Italia

Paolo Liverani

Proporre in pochi minuti un bilancio dell’archeologia italiana sarebbe segno di una hybris intollerabile, che verrebbe certamente punita dalla invidia degli dei, dalla phthònos theòn. Saranno necessarie dunque delle scelte molto selettive. Sicuramente la materia sarebbe abbondante: si pensi alla coscienza che la nostra disciplina ha preso in relazione ad aspetti in precedenza trascurati, quali lo studio dei territori e dei centri abitati in una prospettiva di lungo periodo che travalichi le cesure artificiali tra età e discipline, l’attenzione a periodi quali la tarda antichità e il medioevo, in precedenza rimasti ai margini della ricerca specificamente archeologica, o ancora si pensi alle discussioni sulle metodologie di scavo e di indagine sul territorio, allo sviluppo dell’archeometria, dei metodi quantitativi, alle applicazioni di nuove tecnologie.

Di fronte a questa attenzione all’insieme e al contesto si manifesta, però, contemporaneamente una tendenza a strutturare archeologie particolari, se così posso definirle: sentiamo parlare di archeologia degli elevati, di archeologia leggera, archeologia del paesaggio, archeologia pubblica, archeologia globale e potrei continuare. Da un lato si tratta di indubbi segni della vitalità della disciplina, dall’altra l’impressione è che almeno alcune di tali dizioni siano etichette che danno un nuovo nome a pratiche antiche, oppure che rischiano addirittura di trasformarsi in bandierine identitarie per delimitare nuovi territori accademici e sostituire le vecchie denominazioni, ridisegnandone semplicemente i confini.

Gli sviluppi degli ultimi anni e degli ultimi mesi, però, mi hanno convinto che sarebbe poco appropriato, al momento, un esame delle tendenze dell’archeologia italiana intesa come disciplina puramente accademica. La situazione in cui ci troviamo impone piuttosto che io concentri il mio intervento su un tema di assoluta attualità: quello a dir poco incandescente della tutela.

Il quadro generale italiano è noto: la revisione del titolo V della Costituzione prevede la divisione tra tutela dei beni culturali, affidata allo Stato attraverso gli enti territoriali, ossia le soprintendenze, e la valorizzazione, affidata agli enti locali, cioè soprattutto alle regioni. Questa ripartizione però ha generato nodi problematici che non hanno ancora trovato piena soluzione né teorica né pratica, visto che le due cose sono intimamente correlate, sono due facce della stessa medaglia; a questo si è aggiunta la scarsità di risorse finanziarie e umane che ha raggiunto livelli di guardia sia per la crisi economica, sia per una concezione economicista dei beni culturali.

La recentissima novità in questo campo è però una serie di riforme in tumultuosa sovrapposizione ancora in fase di sviluppo in questi giorni. Mi soffermerò su tre passi successivi nel corso di questi ultimi due anni.

La prima riforma del Ministero dei Beni Culturali è quella del 2014 che ha unificato le Soprintendenze storico-artistiche e monumentali, lasciando sopravvivere quelle archeologiche, ma separando i musei dal territorio. Considerando che in Italia quasi non esistono musei generalisti staccati da territorio si tratta di un danno di notevole gravità perché implica un approccio frammentato alla tutela e complica enormemente il funzionamento degli uffici. Le aree di scavo vengono separate dai luoghi di esposizione sulla unica base del fatto che hanno biglietti di accesso diverso. Dunque una visione assolutamente burocratica di un tema squisitamente culturale, senza alcuna visione d’insieme. Di conseguenza le soprintendenze territoriali ora non possono esporre i rinvenimenti man mano che questi emergono dalla ricerca sul terreno, non hanno più laboratori di restauro, dunque non possono mandare restauratori sullo scavo o procedere – nei casi più delicati – allo scavo in laboratorio. Siamo tornati indietro di molti decenni. Se mi passate un paio di esempi presi dalla Toscana, dove si svolge il mio lavoro, il laboratorio di restauro di questa Soprintendenza Archeologica, quello che ha restaurato per la prima volta i Bronzi di Riace, è stato cancellato dal nuovo organico, mentre agli Uffizi non è più previso un ispettore archeologo cosicché una delle più importanti collezioni di scultura antica d’Italia e del mondo resterà senza un curatore.

La seconda mossa è stata la legge sulla riforma della pubblica amministrazione, meglio nota come legge Madia, con tre importanti provvedimenti che modificano in maniera sostanziale le capacità di intervento delle Soprintendenze. Innanzitutto la legge prevede il silenzio-assenso (art. 3): se un’amministrazione pubblica chiede alla Soprintendenza un’autorizzazione per trasformazioni edilizie, urbanistiche o territoriali, in mancanza di una risposta entro 90 giorni il parere è considerato positivo. Era una norma più volte presentata sotto il governo Berlusconi a cui i partiti del centrosinistra, finché erano all’opposizione, si erano dichiarati contrari, ma che ora hanno fatto propria. Se si tiene conto del fatto che le riforme del 2014 e quella di quest’anno di cui parlerò fra un attimo hanno paralizzato gli uffici, è facile prevedere che un elevato numero di pratiche andrà inevaso con danni estremamente gravi al patrimonio culturale e al paesaggio.

Le Soprintendenze vengono inoltre sottoposte al prefetto (art. 8). Molti temono che il prefetto – in quanto rappresentante del Governo – possa introdurre valutazioni politiche nell’apposizione di un vincolo, invece che affidarsi al parere tecnico dei soprintendenti. Il Ministro Franceschini si è affrettato a rassicurare del contrario, ma in mancanza di provvedimenti normativi ulteriori tali rassicurazioni sono prive di efficacia per due semplici motivi. Innanzitutto il prefetto dipende dal Ministro degli Interni e non da quello dei Beni Culturali, in secondo luogo la legge attribuisce al prefetto “la responsabilità dell'erogazione dei servizi ai cittadini, nonché (le) funzioni di direzione e coordinamento dei dirigenti degli uffici facenti parte dell'Ufficio territoriale dello Stato”. Ciò significa che è lui che firma un provvedimento e valuta se accettare un parere tecnico o se invece considerare prevalenti considerazioni di altro ordine, anche a scapito del patrimonio culturale e del paesaggio.

L’ultimo provvedimento riguarda le conferenze dei servizi (art. 2), quelle che valutano i progetti che ricadono sotto più competenze, per snellire la procedura. Ad esse partecipano tutte le amministrazioni interessate, che possono così concordare un parere o un’autorizzazione. La novità è che ora la decisione viene presa a maggioranza. Il parere della Soprintendenza, quindi, può essere superato dalle voci di altri organismi presenti nella stessa conferenza. Ma è possibile che la voce della Soprintendenza non arrivi nemmeno alla conferenza: il prefetto, infatti, designa “un unico rappresentante delle amministrazioni statali” territoriali, dunque un funzionario che può anche essere incompetente in materia di tutela, ma che dovrà difendere le ragioni di archeologi e storici dell’arte. Per fare un paragone, è come se in un processo affidassimo la nostra difesa a un dentista invece che a un avvocato. Il risultato è prevedibile. Arriva ora la terza riforma del Ministero, che trae le conseguenze della legge Madia: siccome il prefetto non ha autorità su una intera regione, ma solo sulle prefetture che hanno una circoscrizione pari a due o tre province, le soprintendenze vengono ridisegnate sulla base delle prefetture. Inoltre siccome il prefetto vuole un unico referente, le soprintendenze archeologiche che in genere hanno estensione regionale, vengono spezzettate e unificate con le soprintendenze storico artistiche e monumentali. Da 17 soprintendenze archeologiche si passa dunque a circa 40 miste. Questo spezzatino interviene su una situazione che già ora è di paralisi perché si sta faticosamente cercando di applicare la riforma del 2014.

La conseguenza è che le nuove soprintendenze non avranno laboratori di restauro, non avranno biblioteche, non avranno archivio (la legge vieta di suddividere gli archivi). Dunque è come se un medico dovesse visitare i pazienti senza un infermiere, senza un laboratorio di analisi, senza le cartelle cliniche, senza il repertorio aggiornato dei farmaci. Potrà limitarsi a prescrivere qualche aspirina o poco più.

Anche le riviste delle soprintendenze archeologiche non verranno più pubblicate e certo non si possono pubblicare 40 riviste diverse: tanto più che difficilmente le biblioteche specializzate saranno particolarmente interessate a riviste in cui si troverebbero temi di archeologia, di storia dell’arte e paesaggio. Con i criteri della Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca verrebbero inevitabilmente confinate in serie B. Le Notizie degli scavi e il Bollettino di Archeologia certamente non bastano a raccogliere la mole di interventi sul territorio che si fanno ogni anno, e ai Fasti on line dell’AIAC il Ministero ha appena tagliato tutti i finanziamenti, nonostante le numerose convenzioni firmate negli anni passati e il successo della formula. Dunque difficilmente gli scavi minori troveranno modo di essere pubblicati e la piaga dell’inedito diventerà la regola.

Va anche osservato che quest’ultima riforma delle Soprintendente è un chiaro caso di schizofrenia istituzionale: vengono infatti abolite le province e provincializzate le Soprintendenze. Sarebbe invece logico che – tirando le conseguenze della riforma del titolo V della Costituzione – a un ente locale incaricato della valorizzazione – cioè la Regione – corrispondesse da parte dello Stato un ente di pari peso, ossia una Soprintendenza Regionale.

Tutte le consulte universitarie degli archeologi e degli storici dell’arte, le associazioni di categoria dei funzionari del Ministero, i soprintendenti archeologi, l’Accademia dei Lincei, associazioni importanti come la Bianchi Bandinelli hanno criticato questa ultima riforma che paralizza e frammenta la tutela oltre ogni immaginazione. È assolutamente chiaro, dunque, che gli archeologi italiani bocciano questa riforma che arriva a sorpresa, senza nessuna motivazione che non siano le esigenze burocratiche e di controllo, che è stata calata dall’alto senza una minima discussione: non sono stati analizzati preliminarmente i problemi che genera, non si è previsto un budget anzi si ribadisce che tutto deve avvenire a costo zero, il che è evidentemente impossibile visto che si devono creare dal nulla nuove strutture. Non si sono analizzate le esperienze esistenti, come il caso delle soprintendenze uniche siciliane che è unanimemente considerato un sistema sbagliato, in quanto ha generato una dirigenza priva di qualificazione specialistica e una burocratizzazione della gestione.

Se dunque il ministero non aprirà a un confronto serio – e non ci sono segnali positivi fino ad ora –al prossimo anniversario dell’AIAC non so quanto si potrà dire dell’archeologia italiana.


AIAC Tavola Rotonda

Slideshow from the conference (in Italian)

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